15 studi forestali del 2025, scelti e raccontati da SISEF – Parte 1
Cosa ci dicono le nuove ricerche sulle foreste del futuro
Ogni anno la scienza produce più risultati di quanti se ne riescano a seguire. Per chi fa ricerca, gestisce i boschi o segue con passione le notizie sulle foreste del mondo, SISEF ha selezionato i 15 studi a nostro avviso più innovativi, di impatto, o curiosi pubblicati nel 2025.
Per dare voce a queste ricerche, le racconteremo in cinque episodi sul nostro blog. Cinque articoli, ciascuno dedicato a tre diversi studi, per spiegare che cosa hanno scoperto, come sono giunti ai loro risultati, e che cosa cambiano nel modo di pensare la gestione, la conservazione, la resilienza: per chi lavora nei boschi e ha bisogno di strumenti affidabili, ma anche per chi li vive da cittadino o cittadina e vuole capire cosa c’è ancora da scoprire, oggi, sulle foreste.
In questo primo episodio parliamo di piantare alberi, un gesto apparentemente lineare: metti più alberi, assorbi più CO₂, raffreddi il clima. In realtà la foresta può produrre effetti climatici locali diversi da quelli attesi, a seconda di dove e come la si costruisce. I tre studi che seguono convergono su un punto: la domanda più utile non è “quanti alberi”, ma quali alberi, messi dove e in che configurazione spaziale.
C’è anche un secondo aspetto, meno discusso. Molti programmi e molte promesse climatiche legate alle foreste si basano su numeri che, a un primo sguardo, sembrano solidi. Ma la solidità dipende dalla metrica scelta: si misura solo il carbonio oppure anche gli effetti biofisici (albedo, evaporazione, nubi)? Si assume che il carbonio resti “fuori dall’atmosfera” per decenni oppure si considera il rischio di incendio, siccità, insetti e tempeste? E soprattutto: si sta conteggiando qualcosa che sarebbe successo comunque, oppure un cambiamento davvero addizionale?
1) Improving forest ecosystem functions by optimizing tree species spatial arrangement (Beugnon et al., Nature Communications)
Il primo studio parte da un’idea semplice, ma spesso trascurata: molti processi forestali avvengono “a corto raggio”. La lettiera cade vicino alla chioma che la produce, i decompositori e i detritivori lavorano su scale di centimetri o metri, la competizione e la facilitazione tra alberi dipendono dai vicini immediati. Se è così, allora non può essere la stessa cosa se, in un nuovo bosco, le specie vengono piantate “a blocchi” (cioè per gruppi monospeficici) oppure “mescolate” pianta per pianta.
I ricercatori, guidati dal German Centre for Integrative Biodiversity Research (iDiv) di Halle-Jena-Leipzig, hanno lavorato su 180 coppie di alberi vicini, definendo per ciascuna coppia un “vicinato” di dieci alberi adiacenti. Su questi micro-paesaggi hanno misurato il peso della lettiera con trappole da 1 m² e misurato l’intensità della sua decomposizione durante un arco di tempo di nove mesi, quantificando le perdite di carbonio e azoto. Contemporaneamente, hanno simulato di piantare “alberi virtuali” di 2, 4 e 8 specie a gruppi di 16×16 piante, manipolando la disposizione spaziale delle specie lungo un gradiente che andava dai blocchi monospécifici a una distribuzione completamente casuale, includendo anche soluzioni intermedie più realistiche per la selvicoltura, come specie a file alternate singole o doppie e blocchi monispecifici di 4×4 alberi.

E hanno scoperto che, a parità di specie impiegate, la loro disposizione cambia davvero il funzionamento del bosco. Negli impianti a 8 specie, passando da grandi blocchi monospecifici a disposizione casuale, la biomassa aumenta di 1100 g/m². La quantità totale di lettiera rimane costante (54,3 ± 1,0 g/m²), ma cambia radicalmente la sua distribuzione: con mescolanze “fini” la variabilità della lettiera di distribuisce in modo più uniforme sul suolo e la ricchezza media di specie nella lettiera sale da 1,73 a 5,75 specie. E questo è un passaggio chiave, perché la velocità della decomposizione risponde alla qualità e al grado di mescolanza del substrato. Nel mosaico più fine, infatti, la decomposizione accelera del 30% e diventa più omogenea nello spazio. Il dettaglio interessante, per chi deve realizzare impianti forestali nelal pratica, è che non serve arrivare al caos totale per ottenere gran parte del beneficio: un impianto “a linee” migliora già la decomposizione di circa il 10% rispetto ai blocchi, riducendo di circa un terzo la distanza tra soluzione ecologica ideale e soluzione gestionalmente fattibile.
2) Conversion from coniferous to broadleaved trees can make European forests more climate-effective (Yao et al., Nature Communications)
Il secondo studio, a cui hanno partecipato anche ricercatori del Forest Modelling Lab del CNR-ISAFOM, mette il dito su un punto spesso assente nelle discussioni pubbliche: il clima non risponde alle foreste soltanto attraverso l’assorbimento di CO₂ ma anche attraverso processi biofisici, come lo scambio bosco-atmosfera di radiazione, calore sensibile, calore latente e umidità, che può modificare persino la copertura nuvolosa. Gli autori affrontano la questione con un modello climatico regionale accoppiato atmosfera-suolo, COSMO-CLM2, con l’obiettivo di stimare gli impatti biofisici di diversi scenari di cambiamento forestale in Europa in un futuro più caldo (scenario SSP3-7.0).
Metodologicamente, lo studio è costruito come un confronto tra esperimenti simulati: si parte da una simulazione “di controllo” basata sulla distribuzione della vegetazione realmente presente in Europa, e poi si cambia virtuaòmente il tipo di foreste presenti, lasciando invariati altri usi del suolo come le colture agricole. Le tipologie forestali testate includono tre tipi di conifere, cinque di latifoglie e tre di praterie, con parametri specifici per albedo, fotosintesi, struttura della chioma e proprietà idrologiche.
Il cuore dei risultati è che in alcuni casi il cambio di specie in boschi esistenti ha un effetto ancora più potente della semplice afforestazione di aree non boscate. In uno scenario di sola forestazione, in alcune regioni europee emergono segnali di riscaldamento estivo legati a un aumento del calore sensibile e a variazioni della radiazione netta. Ma quando la forestazione è combinata con la conversione da conifere a latifoglie, la storia cambia: su gran parte dell’Europa si osserva una riduzione delle temperature massime estive da −0,5 a −2 °C.
La spiegazione, detta in modo semplice, è questa: sul suolo delle foreste di latifoglie arriva un po’ meno luce solare e, allo stesso tempo, il terreno e la vegetazione ne rimandano indietro un po’ di più (albedo). Quindi resta “a disposizione” meno energia per scaldare la superficie. In più, le latifoglie in media traspirano più acqua, quindi una parte dell’energia disponibile viene spesa per far evaporare acqua dalle foglie e dal suolo, invece che per aumentare la temperatura dell’aria. Meno energia assorbita, e più energia usata per evaporare acqua: la conseguenza è che diminuisce l’energia che finisce direttamente in “riscaldamento”. In sostanza, cambiare tipo di bosco può spostare una parte del bilancio energetico dal riscaldamento dell’aria verso un raffreddamento legato all’evaporazione.
Il risultato più istruttivo, però, sta nelle eccezioni. Nel Mediterraneo, anche la conversione a latifoglie mostra un impatto di riscaldamento in diversi mesi dell’anno e una capacità di raffreddamento estivo inferiore rispetto ad altri scenari. In questo caso, quando una prateria diventa un bosco di latifoglie, la superficie finisce per assorbire più energia solare di prima. Quell’energia in più dovrebbe essere “smaltita” soprattutto facendo evaporare acqua, cioè aumentando la traspirazione delle piante e l’evaporazione dal suolo, ma se l’acqua non è abbastanza, perché l’estate è secca e il suolo va in stress idrico, l’evaporazione non può crescere quanto servirebbe. Di conseguenza, invece di essere usata per evaporare acqua, l’energia disponibile viene trasferita più direttamente all’aria sotto forma di calore. In altre parole, in un clima già secco, piantare più alberi può aumentare l’assorbimento di radiazione solare senza che ci sia abbastanza acqua per compensare con il “raffreddamento da evaporazione”, e quindi il risultato netto può essere un riscaldamento locale. IL bilancio, in definitiva, dipende dallo stato di partenza del mosaico vegetazionale e dal bilancio tra radiazione assorbita e acqua disponibile per evaporare.

3) Towards more effective nature-based climate solutions in global forests (Anderegg et al., Nature)
Il terzo testo è una Perspective su Nature, quindi non presenta un singolo esperimento, ma propone una cornice rigorosa per giudicare quanto valgono, climaticamente, le azioni forestali finanziate e comunicate come “nature-based climate solutions”. Gli autori partono da un dato macroscopico: gli ecosistemi terrestri assorbono circa il 31% delle emissioni antropogeniche di carbonio ogni anno, e l’attuale deforestazione produce emissioni stimate in 1,9 GtC/anno. Sono numeri che spiegano perché le foreste siano diventate centrali nelle strategie climatiche, pubbliche e private. Eppure, molti programmi di compensazione hanno emesso crediti che realizzano solo una piccola frazione dei benefici climatici dichiarati, soprattutto quando usati come offset. La conseguenza economica è già visibile: il prezzo dei crediti da progetti forestali tropicali è sceso da oltre 21 dollari per tonnellata di CO₂eq a circa meno di 1–2 dollari per tonnellata nel 2024.
Il contributo principale della Perspective è definire quattro condizioni necessarie perché una soluzione forestale sia davvero efficace climaticamente. La prima è il raffreddamento netto del clima, che richiede di integrare carbonio e feedback biofisici. La chiave è nuovamente l’albedo: le foreste tendono ad avere albedo più bassa di molte superfici alternative e quindi assorbono più radiazione solare, con un effetto di riscaldamento. In paesaggi molto riflettenti, come aree con neve persistente, suoli desertici o praterie, la riduzione di albedo può pesare molto, e in alcuni casi può superare il beneficio da stoccaggio di carbonio. Gli autori propongono che i progetti non dovrebbero essere autorizzati dove l’effetto di riscaldamento da albedo supera il beneficio del carbonio, oppure che il credito climatico debba essere ridotto proporzionalmente all’impatto atteso sull’albedo.
La seconda condizione è la permanenza, cioè quanto a lungo il carbonio resta fuori dall’atmosfera. Qui la scienza dei disturbi entra direttamente nella contabilità climatica: incendi, siccità, agenti biotici, vento, tempeste, innalzamento del livello del mare e specie invasive possono produrre perdite di carbonio e compromettere la durata del beneficio. Le foreste sono in grado di rigenerarsi dopo un disturbo, ma questo non sempre succede, e anche quando succede, i tempi non sono quelli richiesti da una contabilità climatica che promette equivalenza immediata con emissioni fossili. Questo riechio deve essere integrato come elemento strutturale della stima dei crediti reali.
Le altre due condizioni sono addizionalità e leakage. L’addizionalità chiede che il progetto produca un cambiamento reale rispetto a ciò che sarebbe avvenuto comunque, e quindi obbliga a definire baseline credibili. Il leakage chiede di verificare se, proteggendo o cambiando la gestione di una foresta, non si stia semplicemente spostando l’impatto climatico altrove (ad esempio con conversioni di uso del suolo in altre regioni). Anche senza entrare nei dettagli dei singoli protocolli, il messaggio è chiaro: se non si misura bene “cosa cambia davvero” e “dove finisce ciò che si evita”, si possono generare crediti con un valore climatico molto più basso di quello dichiarato, o addirittura nullo.
Gli autori chiudono indicando riforme strutturali e discutendo un approccio alternativo all’offsetting, chiamato “contribution approach”: invece di usare I crediti per compensare emissioni, le aziende potrebbero dichiarare di aver finanziato interventi che generano benefici climatici e ambientali: un contributo, non una compensazione uno-a-uno. Le foreste continuano a ricevere risorse, ma si evita di usare un numero incerto come se fosse uno scontrino preciso per azzerare emissioni che, invece, sono reali e immediate.

Al prossimo episodio!
Info Autori
Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali - Produzione, Territorio, Agroenergia (DISAA)
Università degli Studi di Milano








