Si fa presto a dire…Pino
Molti di noi conservano intensi ricordi di momenti vissuti in una pineta vicino al mare. Anche per questo le pinete costiere non solo costituiscono un importante elemento del patrimonio forestale italiano, ma hanno anche un ruolo preminente nella nostra cultura ed immaginario collettivo e non è un caso che siano già state studiate sotto molti aspetti (FIG.1).

FIG.1 – Il tramonto in pineta – foto di Marco Matteucci
Ha ancora senso analizzarle scientificamente e con nuove metodologie, ad esempio nel contesto dei cambiamenti climatici, della siccità e del ciclo del carbonio? Apparentemente sì, almeno stando ai risultati di un recente studio condotto dal JRC – Joint Research Centre – della Commissione Europea in collaborazione con altri enti di ricerca europei, tra cui il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Università di Firenze, recentemente pubblicato su Agricultural and Forest Meteorology. La ricerca ha analizzato due pinete della Tenuta di San Rossore, situata all’interno del Parco Regionale Migliarino San Rossore Massaciuccoli, tra la città di Pisa ed il Mar Tirreno: una popolata principalmente con pino marittimo (Pinus pinaster Aiton) e l’altra quasi esclusivamente da pino domestico (Pinus pinea L. 1753).
Il più importante risultato ottenuto riguarda la maggiore capacità di fissare il carbonio (produttività primaria netta) e la maggiore efficienza idrica da parte del pino marittimo rispetto al domestico.
Per il pino marittimo è stata stimata una produttività primaria netta annua di 441 ± 46 gC m–2 y–1, contro i 224 ± 35 gC m–2 y–1 del pino domestico. Questo significa che, nello stesso luogo soggetto a prolungati periodi di caldo e di scarsa precipitazione, la specie meno tollerante il caldo e l’aridità è stata sistematicamente in grado di fissare una quantità di anidride carbonica quasi doppia rispetto alla specie meglio adattatasi al clima mediterraneo. L’ipotesi degli autori è che sia stato proprio il miglior adattamento evolutivo al clima caldo e siccitoso del pino domestico a renderlo meno efficiente nell’assorbire anidride carbonica dall’atmosfera, consentendogli di mantenere l’attività fotosintetica e respiratoria anche in condizioni climaticamente “difficili”, quando l’attività biologica non riesce ad essere efficiente. Al contrario, il pino marittimo, nelle stesse condizioni avverse, tende a ridurre la sua attività come risultato di un meccanismo evolutivo di protezione contro il caldo e la siccità. Questo comporta un miglior bilancio di carbonio nel medio e lungo periodo.
Il risultato sembra controintuitivo, ma si spiega tenendo conto di tutti i processi biologici dell’ecosistema: il pino domestico continua a fotosintetizzare anche nei periodi più caldi e siccitosi, ma in quelle condizioni le perdite di carbonio dovute alla respirazione superano gran parte del guadagno fotosintetico. Il pino marittimo invece riduce temporaneamente l’attività durante gli stress, limita le perdite respiratorie e ottiene così un bilancio di carbonio migliore nel corso dell’anno.
Analogo risultato e conclusioni sono stati trovati per quanto riguarda l’efficienza di uso della risorsa idrica, data dalla quantità di acqua utilizzata dall’ecosistema e riemessa in atmosfera tramite evapotraspirazione per sostenere il processo fotosintetico. Questo risultato, se dovesse venire replicato e confermato anche in altri contesti geografici, suggerirebbe una criticità nella scelta delle specie forestali su cui puntare in ambiente mediterraneo, a seconda anche delle strategie di gestione forestale. Ad esempio, tutelare l’aspetto paesaggistico e culturale, che vede nel pino domestico un campione nazionale, potrebbe non essere la scelta migliore dal punto di vista della fissazione del carbonio o dell’utilizzo razionale delle risorse idriche.
L’altro importante risultato riguarda la combinazione tra due diverse metodologie usate nello studio, ossia il confronto tra la misura dei flussi di carbonio tramite correlazione turbolenta (eddy covariance) e l’analisi dendrocronologica degli accrescimenti anulari. Si tratta di approcci radicalmente diversi, il primo basato su misure istantanee di direzione del vento e di concentrazione gassosa ad alta frequenza, il secondo su analisi di campioni legnosi, quali carote o rotelle di legno, proprie della dendroecologia. Nonostante l’enorme diversità tra le scale spaziali e temporali, i due approcci possono essere combinati, sfruttando la loro complementarità, per migliorare la rappresentatività delle singole metodologie, riducendo i limiti intrinseci delle rispettive risoluzioni: quella spaziale delle misure di flusso turbolento o quella temporale della dendrocronologia. Speranza degli autori è che questo possa essere solo uno dei primi lavori di un nuovo filone di indagine che, in un futuro non troppo remoto, si possa ulteriormente sviluppare con la continuazione e, idealmente, l’ulteriore diffusione delle attività di monitoraggio e ricerca che hanno reso possibile questo e tanti altri lavori.

FiG. 2 – Stazione ICOS San Rossore 2, Pisa – foto di Alessio Giovannelli
Le misure di flusso turbolento negli ultimi due decenni ed oltre sono infatti state rese possibili grazie all’inserimento, già dalla fine dello scorso secolo, della stazione di San Rossore (Fig. 2 e 3) in un’ampia rete composta da molti siti di ricerca e monitoraggio ormai diffusa su scala globale, nota come Fluxnet e, recentemente, all’istituzione dell’infrastruttura di ricerca continentale ICOS (Integrated Carbon Observation System). La prosecuzione ed il rafforzamento di queste imprese tecniche e scientifiche sono di vitale importanza per garantire non solo il progresso delle conoscenze nel settore, ma anche, ça va sans dire, la collaborazione tra culture e paesi in un contesto storico che, purtroppo, non consente più di ritenere acquisite certe facoltà.

FIG. 3 – Sensori in cima alla stazione ICOS San Rossore 2 – foto di Alessandro Dell’Acqua



