La gestione post-incendio inizia prima che le fiamme siano spente.
Come orientare le strategie gestionali per il ripristino delle aree percorse
Non appena le fiamme vengono domate, prima ancora che la cenere smetta di fumare, si alzano le prime voci che, spesso con nobili intenzioni, chiedono con forza di piantare nuovi alberi nelle aree appena percorse dall’incendio. Non importa se ci troviamo in una pineta di pino silvestre bruciata in chioma da un incendio di inizio marzo, in un castagneto percorso da un fronte radente a dicembre o nella macchia mediterranea in piena estate: la soluzione proposta non cambia. Indipendentemente dal tipo di bosco e di territorio; indipendentemente dal tipo e dalla dimensione dell’incendio. Tagliamo e portiamo via le piante morte; piantiamo nuovi alberi. Problema risolto. E, invece, nulla di più sbagliato. O meglio, non c’è nulla di più erroneo che credere che un’unica soluzione possa essere applicata in ogni contesto. Soprattutto quando il contesto è quello estremamente variegato e complesso di un ecosistema forestale percorso dal fuoco.
Una cosa però è corretta nel ragionamento appena descritto: la gestione post-incendio deve essere affrontata subito, prima che la fase di estinzione sia terminata. Con un approccio che non sia quello dell’emergenza però, ma che si fondi su scelte ragionate, basate sulla disponibilità di protocolli di intervento solidamente ancorati sulla conoscenza del territorio, del comportamento del fuoco e dell’ecologia delle specie presenti.
Le amministrazioni competenti, guidate dalle informazioni e dagli strumenti che oggi la scienza mette a nostra disposizione, devono essere in grado di compiere le scelte più efficaci e trovare i giusti compromessi per garantire il ripristino degli ecosistemi colpiti e recuperare in tempi rapidi tutti quei servizi e beni essenziali che il bosco fornisce alla società.
Come da tempo sperimentato oltreoceano dai nostri colleghi statunitensi, è importante distinguere due momenti nella gestione post-incendio e per ciascuno adottare gli opportuni interventi, dettati dalla distribuzione dei diversi livelli di severità (ovvero l’impatto prodotto dal fuoco sull’ecosistema in tutte le sue componenti, dal suolo alla vegetazione arborea) all’interno dell’area percorsa, in relazione alle strategie di risposta dell’ecosistema.
La prima fase della gestione post-incendio riguarda le prime settimane dopo il passaggio del fuoco e deve essere orientata all’individuazione di situazioni di potenziale pericolo causate dall’incendio (in particolare in relazione a fenomeni di dissesto idrogeologico) e alla conseguente messa in sicurezza del territorio in tempi rapidi. Questo richiede personale preparato e fondi dedicati. Il protocollo BAER (Burned Area Emergency Response) prevede ad esempio che un team di esperti di diverse discipline (forestali, ecologi, pedologi, geologi, idrologi …) venga attivato prima che il fuoco sia estinto, per produrre, entro alcuni giorni dalla fine dell’incendio, una cartografia speditiva della severità (in particolare a carico del suolo, combinando rilievi in campo e dati telerilevati) e localizzare aree esposte a possibili minacce. Vengono quindi definite le tecniche e tipologie di intervento da adottare per la stabilizzazione dell’emergenza. Normalmente solo alcune zone necessitano di intervento, ma il punto chiave di questa prima fase è la tempestività: non c’è spazio per tentennamenti o ritardi burocratici quando si tratta di prevenire fenomeni potenzialmente più dannosi dello stesso incendio.
La seconda fase della gestione post-incendio si sviluppa invece nel medio/lungo termine (ovvero per diversi anni) e riguarda l’effettivo ripristino ecologico dei popolamenti interessati dall’incendio, con l’obiettivo di ricostituire struttura, diversità specifica e produttività dell’ecosistema. Ma dopo un incendio è sempre necessario intervenire per raggiungere questo obiettivo? No, nella maggior parte dei casi il bosco è in grado di reagire spontaneamente e di attivare processi di ricostituzione naturale che ne garantiscono il ripristino, con tempi e modalità differenti nei diversi ecosistemi (normalmente in ambiente mediterraneo le dinamiche sono più veloci rispetto ad un contesto alpino). Questo perché, soprattutto in quegli ambienti che per lungo tempo sono stati soggetti ad incendi ricorrenti, le specie hanno sviluppato adattamenti al fuoco (o meglio, ad un particolare regime di incendio), tali da garantirne la sopravvivenza (quali, ad esempio, serotinia dei coni, corteccia spessa, capacità di ricacciare, fioritura o germinazione dei semi stimolata dal calore o dal fumo). In alcuni casi si parla addirittura di specie dipendenti dal fuoco, ovvero di specie che richiedono uno specifico regime di incendio, grazie al quale riescono a prosperare, dominando il territorio che occupano.
In presenza di specie con tratti di resistenza o resilienza interessate da un incendio con caratteristiche che rientrano nei limiti di quello che viene definito un regime ecologicamente appropriato, l’intervento dell’uomo non solo non è richiesto, ma addirittura potrebbe compromettere, alterare o semplicemente rallentare le dinamiche di ricostituzione naturale. Oggi sappiamo ad esempio che questo è ciò che spesso succede in conseguenza di interventi di salvage logging (ovvero il taglio e l’asportazione delle piante morte o danneggiate in seguito ad un disturbo), seguiti o meno da rimboschimento artificiale.
Una corretta azione di ripristino individua le aree a priorità di intervento e qui concentra sforzi e risorse. Quali parametri dobbiamo valutare per individuare tali aree? Tra i principali, oltre alla severità del fuoco, abbiamo la forma e la dimensione dell’area percorsa in relazione alle strategie di ricostituzione delle specie e alla capacità di dispersione del seme. Possiamo quindi, se necessario, definire i siti in cui realizzare ad esempio piccole aree di rimboschimento (secondo la tecnica della “nucleazione applicata”), a complemento della rinnovazione naturale, sfruttando eventuali meccanismi di facilitazione prodotti dalla necromassa e le condizioni micro-climatiche più favorevoli. La scelta delle specie da mettere a dimora e dei sesti di impianto deve essere definita in relazione al sito e agli obiettivi gestionali, con un occhio agli scenari futuri di cambiamento climatico e dei regimi di disturbo.
Gli interventi di ripristino devono inoltre essere collocati in un contesto di pianificazione territoriale, che consenta ad esempio di individuare le aree in cui privilegiare azioni che possano portare a popolamenti più resistenti o meno infiammabili per ridurre il rischio, in particolare in zone di interfaccia urbano-foresta, andando quindi ad incidere su composizione specifica e struttura del bosco in alcune aree e limitando invece l’intervento antropico su altre.