Giro Forestale d’Italia – continua la settimana 3

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La prima tappa della settimana 3 qui – Oasi di Valtrigona
La seconda tappa della settimana qui – Bosco di Vanzago

Tappa 21 – Oasi di Macchiagrande: Lo sprint del bosco

Il Giro d’Italia si chiude con il fiato corto e il cuore pieno. Dopo le montagne, dopo la fatica e le fughe, si ritorna a rivedere il mare, e a lanciarsi a tutta velocità verso Roma. È il momento dei velocisti, quelli che si sono nascosti per giorni nel gruppo e che adesso esplodono negli ultimi metri, precisi e furiosi. Anche i boschi possono fare così. Dopo la salita, la sofferenza, la resistenza, arriva il tempo di accelerare. Non per andarsene, ma per riaffermarsi, per prendere spazio.

Così è per il Bosco di Macchiagrande, l’ultimo protagonista di questo nostro Giro forestale. Alle porte di Roma e a pochi chilometri da Ostia, questa Oasi WWF si stende tra dune, stagni e foreste costiere, testimone di un paesaggio antico che oggi resiste all’urbanizzazione, al turismo, ai cambiamenti climatici. Qui il bosco non solo resta, ma rilancia. In un mosaico ecologico che va dalla spiaggia al bosco igrofilo, la vegetazione si distribuisce secondo una sequenza quasi perfetta, come una squadra ben organizzata in vista dello sprint. Le piante pioniere colonizzano la sabbia, la macchia retrodunale si infittisce in leccete ombrose, e nelle zone più umide si incontrano formazioni relitte, rarissime, dominate da alloro e frassino.

Un bosco così, a due passi dalla Capitale, è già di per sé una notizia. Ma lo è ancora di più il modo in cui l’Oasi viene gestita: come un laboratorio vivente per la conservazione e l’adattamento, in grado di proteggere habitat prioritari e favorire la resilienza ecologica in un territorio complesso. È la volata della natura: rapida, compatta, precisa. Ma non meno potente di una lunga salita.

Oasi WWF, Bosco Macchiagrande, Fabio Converio

Un mosaico mediterraneo

Visitare l’Oasi WWF di Macchiagrande è come aprire un libro di ecologia in scala reale. Situata nel comune di Fiumicino, in località Maccarese, l’area si estende per 280 ettari lungo il litorale laziale. È una delle pochissime zone dove è ancora visibile la sequenza originaria degli ecosistemi costieri mediterranei: dalla spiaggia alla duna mobile, dalle formazioni arbustive retrodunali fino al bosco di leccio e alle formazioni igrofile.

Questo gradiente di habitat – rarissimo lungo le coste italiane, spesso frammentate da infrastrutture turistiche e urbane – ospita una biodiversità sorprendente: uccelli migratori, rettili come il biacco e il ramarro, mammiferi come la volpe e l’istrice, e una varietà floristica che cambia nel giro di pochi metri. Qui si trovano esemplari di ginepro coccolone, lentisco, fillirea, e più all’interno, macchie fitte di leccio (Quercus ilex) e formazioni dominate dall’alloro (Laurus nobilis), relitto vegetale di antiche foreste umide mediterranee oggi scomparse quasi ovunque.

Oasi WWF, Bosco Macchiagrande, WWF Italia

Un sopravvissuto del tempo profondo

Certe piante sono come viaggiatori nel tempo. L’alloro non è solo una pianta aromatica da cucina o un simbolo di gloria accademica. È il superstite di un’epoca lontanissima, in cui l’Europa era avvolta da una lussureggiante foresta umida subtropicale.

Immaginate una foresta sempreverde, simile a quelle che oggi crescono in Giappone o nelle montagne subtropicali della Cina, con alberi dalle grandi foglie lucide, ricchi di frutti e fiori carnosi, profumati. Era il tempo del Terziario, un’era che si estende per oltre 60 milioni di anni a partire da circa 66 milioni di anni fa. In quel lungo periodo, il clima europeo era più caldo e umido di oggi, e le foreste erano dominate da specie “laurofille”, cioè con foglie simili a quelle dell’alloro. A quel tipo di vegetazione i paleobotanici danno un nome evocativo: “geoflora paleotropicale”.

Queste foreste lussureggianti hanno raggiunto la loro massima espansione durante l’Eocene, tra 56 e 34 milioni di anni fa. All’epoca, le specie sempreverdi laurofille dominavano l’Europa centrale e meridionale. Ma non erano sole: col passare dei millenni, da nord avanzava un altro tipo di vegetazione, fatta di querce, faggi, olmi, aceri. Era la cosiddetta “geoflora arctoterziaria”, più simile ai nostri boschi caducifogli attuali. Le due si intrecciarono, si contesero gli spazi, si sovrapposero. Finché il clima, diventando via via più fresco e meno stabile, non diede il colpo di grazia alla foresta laurofilla.

Con l’arrivo del Pleistocene, 2 milioni di anni fa, e le sue glaciazioni cicliche, le foreste di tipo subtropicale scomparvero quasi ovunque in Europa. Ne rimasero solo delle reliquie, isolate in zone umide, costiere, protette, dove il gelo non arrivava mai davvero a fondo. Oggi, quei relitti vivono ancora in pochi luoghi speciali: nella laurisilva delle Canarie, nelle valli riparate del Caucaso… e, sorprendentemente, in qualche frammento anche sulle coste del Tirreno.

Ecco perché oggi, a Macchiagrande come in rare stazioni dell’Appennino, possiamo ancora incontrare l’alloro nel suo ambiente naturale. Qui si è rifugiato, adattandosi alle nuove condizioni, nei microclimi più umidi, su suoli profondi e ricchi, in consorzio con frassini, pioppi, olmi e querce. Ma la sua è una presenza fragile. L’alloro non ama il freddo intenso, ma neppure né i lunghi periodi di siccità. È un albero d’ombra, che tollera solo ambienti freschi e relativamente stabili, in discontinuità con il clima tipico mediterraneo attuale – e ancora di più con quello del nostro prossimo futuro.

Oasi WWF, Bosco Macchiagrande, B. Mariotti

Il suo stesso essere qui ci racconta una storia di resistenza. Come un corridore staccato dal gruppo, che con pazienza e tenacia ha resistito ai venti contrari, l’alloro si è aggrappato a pochi habitat residuali. A Macchiagrande, questo testimone del tempo profondo sopravvive ancora, ricordandoci che ogni pianta è anche un racconto evolutivo. E che proteggerla significa custodire un frammento vivente della storia naturale d’Europa.

Gioco di squadra: il segreto della rinascita del leccio

Non sempre la competizione tra piante è una guerra. In certe condizioni, è una silenziosa alleanza. Lo dimostra un esperimento condotto sulle dune costiere dell’Aquitania, nel sud-ovest della Francia, dove i ricercatori hanno cercato di comprendere quali fossero i fattori ambientali più favorevoli alal rinnovazione e alla sopravvivenza del leccio, una delle specie regine di Macchiagrande. Durante lo studio, gli scienziati hanno trapiantato giovani piante di tre specie di quercia — tra cui il nostro sempreverde leccio — in foreste costiere esposte a crescente stress idrico. Alcune piantine sono state poste all’ombra di arbusti spontanei, altre lasciate da sole.

Il risultato è sorprendente: nei siti più asciutti, in particolare nelle radure dove il sole e il vento aumentano lo stress atmosferico, la sopravvivenza dei lecci è risultata nettamente superiore sotto la protezione degli arbusti. L’effetto positivo, spiegano i ricercatori, deriva dalla riduzione del deficit di pressione di vapore — un indicatore dello stress da disidratazione — sotto la chioma bassa degli arbusti. Al contrario, nelle aree più umide e ombreggiate, l’effetto si inverte: lì gli arbusti fanno prevalere l’interferenza competitiva, e la sopravvivenza delle querce peggiora.

Questa dinamica conferma la Stress Gradient Hypothesis, secondo cui la competizione tra piante prevale in ambienti meno ostili, mentre in quelli più difficili è la facilitazion, cioè il reciproco aiuto, a diventare decisivo. Ma il risultato più importante è che in condizioni di siccità crescente, come quelle previste dal cambiamento climatico nelle zone costiere del Mediterraneo, la presenza degli arbusti non è un problema da risolvere, ma una risorsa da valorizzare. Queste evidenze offrono implicazioni concrete per la gestione e il ripristino delle leccete costiere, oggi tra i tre ecosistemi forestali più minacciati in Italia — insieme ai boschi planiziali e a quelli ripari — secondo la Strategia Forestale Nazionale.

La Nature Restoration Law europea prevede che gli Stati membri adottino piani di ripristino per gli habitat più degradati, e le foreste costiere rientrano a pieno titolo in questa categoria. Ma per ripristinarle non basterà piantare nuovi lecci: occorre ricreare le condizioni microclimatiche che ne favoriscano la sopravvivenza nei primi anni di vita. Ecco allora che gli arbusti spontanei — corbezzoli, filliree, lentischi — possono fungere da “balie”, creando un microambiente più fresco e umido dove le giovani querce riescono a radicare meglio. È una strategia semplice, a basso costo e fondata sulla conoscenza delle relazioni ecologiche. E come spesso accade in natura, è proprio nel gioco degli equilibri sottili che si nascondono le soluzioni più efficaci per convivere con un clima che cambia.

Oasi WWF, Bosco Macchiagrande, WWF Italia

Un direttore sportivo per il bosco

Se la tappa finale del Giro è fatta per gli scatti, per chi conserva le ultime energie per un’esplosione controllata e precisa, anche la gestione forestale dell’Oasi di Macchiagrande somiglia a un’azione mirata e strategica, più che a un intervento generalizzato. L’obiettivo non è arrivare primi, ma mantenere il bosco in salute, lungo tutta la corsa della sua vita.

Lo dicono le misure di conservazione del sito, che stabiliscono un equilibrio tra protezione integrale e cura responsabile, soprattutto nei boschi di leccio e nella pineta litoranea. Il principio guida è semplice: più complessità, più biodiversità. Per questo motivo, ogni taglio deve servire a far emergere una struttura più articolata, con alberi di diverse età, altezze e specie, capaci di ospitare più vita.

Tra gli interventi ammessi c’è il diradamento selettivo: un gesto per dare luce e spazio agli individui più promettenti, magari giovani sughere o corbezzoli, che nel tempo renderanno il bosco più resiliente. Questo processo è fondamentale per accompagnare il passaggio da boschi omogenei (e anche ex cedui) a formazioni mature, naturali, capaci di sostenersi da sole e resistere meglio a siccità e incendi.

C’è anche una speciale attenzione al legno morto: tronchi caduti, rami secchi, ceppaie in decomposizione non sono scarti, ma rifugi per una moltitudine di specie, soprattutto insetti saproxilici e funghi decompositori, fondamentali per il ciclo della materia organica. Anche in questo caso, l’approccio è selettivo: si lasciano in bosco le porzioni che non creano pericolo, e si rimuovono solo quelle che potrebbero alimentare incendi o cadere vicino ai sentieri.

Infine, ogni scelta forestale dovrà essere inserita in un Piano di Gestione Forestale, cioè una strategia pluriennale che decide quando, dove e come intervenire per favorire l’evoluzione degli habitat senza snaturarne la funzione. È una gestione fatta di osservazione, misurazioni, attesa dei “tempi forestali” e continui aggiustamenti basati sui dati – proprio come il lavoro di un direttore sportivo, che conosce la forma dei suoi corridori e sa quando spingere e quando rallentare. È così che una foresta, fragile e assediata da mille pressioni, può continuare a essere non solo rifugio per le specie, ma anche alleata nella lotta al cambiamento climatico, nella protezione dal dissesto idrogeologico, o nella produzione di materia prima rinnovabile e pulita.

E anche quando la corsa sarà finita, il suo traguardo continuerà a essere il nostro futuro.

I boschi raccontati nelle puntate precedenti del Giro Forestale d’Italia sono visibili qui

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Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali - Produzione, Territorio, Agroenergia (DISAA)
Università degli Studi di Milano

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