Giro Forestale d’Italia – Settimana 3

Il report della seconda settimana del Giro Forestale d’Italia qui
Il report della prima settimana del Giro Forestale d’Italia qui
La terza settimana del Giro è quella decisiva. Le gambe si induriscono, le tappe si allungano, la strada si inerpica. Dopo giorni di pianura e tattica, tornano le montagne: salite iconiche, fughe da lontano, ribaltoni possibili fino all’ultimo metro. E anche il nostro viaggio tra i boschi segue la stessa pendenza.
Lasciamo la dolcezza umida della pianura per salire tra larici e abeti rossi, in quelle foreste d’alta quota dove la crisi climatica si manifesta senza filtri. All’Oasi di Valtrigona, la tempesta Vaia ha spezzato la continuità della copertura forestale. E dopo il vento, il bostrico. Un doppio colpo che ha costretto a una scelta non scontata: come ripristinare un bosco che non può più essere com’era? Come accompagnare la transizione verso nuovi equilibri ecologici?
Altrove, invece, la sfida è stata diversa. A Vanzago, alle porte di Milano, e a Macchiagrande, a pochi chilometri dal mare e dalla passerella finale del Giro d’Italia, non si è trattato di ricostruire, ma di proteggere. Due foreste planiziali sopravvissute all’espansione urbana e al consumo di suolo, dove la biodiversità ha potuto consolidarsi grazie a decenni di cura, attenzione e visione. Qui la gestione forestale ha saputo fare spazio alla vita, anche nelle forme più inattese.
In questa ultima settimana, racconteremo boschi che cambiano. Foreste che salgono, che resistono, che tornano. Parleremo di transizioni lente ma inevitabili, di specie che avanzano e altre che si ritirano, e del delicato mestiere di chi deve decidere quando lasciare fare alla natura e quando invece accompagnarla. In un caso, il bosco è stato ripristinato dopo il disturbo. Negli altri due, è stato custodito contro l’oblio. In tutti, però, la presenza umana ha fatto la differenza. Non sempre distruttiva. A volte, decisiva per la sopravvivenza stessa dell’ecosistema. La corsa finisce. La storia del bosco, no.
E poiché nell’ultima settimana di corsa tutte le fughe possono essere decisive, abbiamo deciso di dedicare a ciascuna delle tre tappe rimaste da affrontare uno spazio a sé, approfondendo come si deve le storie che ogni pasi forestale ha da raccontare, e prolungando così il piacere di pedalare con la fantasia in questi boschi.
Non perdere il prosieguo della storia, le tappe 18, Il Bosco di Vanzago, e 21, l’Oasi di Macchiagrande, che verranno pubblicate durante questa settimana di giro.
Tappa 16 – Valtrigona: la risalita del bosco
Non ci sono solo boschi che resistono. Ci sono anche quelli che, come certi campioni del ciclismo, cadono, perdono terreno e poi risalgono. Non con la forza, ma con la capacità di reagire. Valtrigona è uno di questi.
La sua storia assomiglia a quella di una tappa di montagna. La crisi colpisce all’improvviso, come un salto di catena a pochi chilometri dal traguardo. Nel 2018, la tempesta Vaia si abbatte sull’arco alpino orientale e sull’Oasi WWF di Valtrigona, nel cuore della catena del Lagorai. Il vento sradica gli abeti rossi, apre varchi nelle chiome. Poi arriva il bostrico (Ips typographus), un piccolo coleottero endemico che si nutre della linfa negli abeti indeboliti o appena sradicati. Approfittando del grande numero di alberi danneggiati il bostrico si moltiplica, fino ad attaccare in massa gli abeti ancora sani, uccidendoli uno dopo l’altro. In poche stagioni, una porzione della foresta viene messa in ginocchio. Ma è proprio qui che inizia la risalita.

Oasi WWF di Valtrigona, Walter Tomio
Valtrigona è una delle poche oasi WWF nell’arco alpino, 234 ettari tra i 1.600 e i 2.200 metri di quota a ridosso della Valsugana. L’Oasi si trova all’interno della Zona di Protezione Speciale del Lagorai (ZPS IT3120160), nel Comune di Telve (TN). Qui il WWF, che ha acquistato tutti i terreni grazie alle donazioni di soci e sostenitori ricevute a partire dal 1996 durante l’Operazione Beniamino, ha deciso di non forzare il ritorno al passato. Invece di portare via il legname danneggiato e ripiantare il bosco si è scelto di attendere la rinnovazione naturale: una scelta sulla fiducia nella capacità intrinseca degli ecosistemi alpini di rigenerarsi e adattarsi ai cambiamenti.
E infatti, sei anni dopo la tempesta si osserva l’insediamento di specie pioniere come il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), che grazie alla sua capacità di colonizzare rapidamente gli spazi aperti, sta contribuendo alla ricostituzione del bosco. Altre specie che si stanno affermando includono il larice (Larix decidua), il pino cembro (Pinus cembra), l’ontano verde (Alnus viridis), il rododendro (Rhododendron ferrugineum), il ginepro nano (Juniperus communis subsp. alpina) e il mirtillo (Vaccinium myrtillus). Queste specie sono adattate alle condizioni alpine e giocano un ruolo cruciale nel ristabilire la copertura vegetale e la biodiversità dell’area.

Oasi WWF di Valtrigona, Walter Tomio
Dove e come ripristinare
Non tutte le foreste colpite da Vaia e dal bostrico sono state trattate allo stesso modo. Se alcune aree, come l’Oasi WWF di Valtrigona, sono state in parte lasciate alla rinnovazione naturale per osservare le dinamiche spontanee di ritorno della foresta, altrove si è scelto di intervenire con più decisione. Ma secondo quali criteri si stabilisce se, dove e come ripristinare un bosco danneggiato?
Uno studio elaborato dopo la tempesta ha individuato una serie di priorità d’intervento, che non si basano solo sulla quantità di legno schiantato, ma soprattutto sulle funzioni ecosistemiche che la foresta svolge. In cima alla lista troviamo i boschi che proteggono direttamente infrastrutture o abitati da frane, valanghe e caduta massi. Segue la gestione delle aste fluviali e dei bacini idrografici montani. In queste situazioni, la velocità e l’efficacia del ripristino sono fondamentali per la sicurezza delle persone e per la stabilità del paesaggio, il che può richiedere di accelerare il ritorno del bosco attraverso un’azione di rimboschimento.
Una volta definita la necessità di intervenire, però, occorre fare attenzione. Esperienze maturate in Italia e in altri Paesi alpini (come la Svizzera) hanno mostrato che in molte situazioni la rinnovazione naturale è non solo possibile, ma anche più efficace e meno costosa di quella artificiale, a condizione che si rispettino alcune condizioni: presenza di alberi portaseme, buon controllo degli ungulati selvatici, esposizione e suolo favorevoli.
Infine, ogni intervento deve tenere conto della funzionalità bio-ecologica del bosco e della sua complessità. È quindi consigliabile lasciare sul posto una parte degli alberi caduti o morenti (le cosiddette legacies, come ceppaie, legno morto, alberi senescenti), per conservare l’habitat e facilitare il ritorno delle giovani piante. Interventi troppo intensivi e generalizzati, come un salvage logging completo, possono infatti peggiorare la situazione, compattando il suolo, alterando il microclima e riducendo la biodiversità.
L’eredità dei disturbi
In Trentino, l’infestazione di bostrico ha colpito duramente. Secondo i dati aggiornati della Provincia autonoma di Trento, dal 2019 al 2024 circa 13 422 ettari di bosco sono stati interessati da attacchi, con una perdita stimata di oltre 2,7 milioni di metri cubi di legname. Ma negli ultimi due anni, la pressione del bostrico sembra diminuire: le trappole a feromoni hanno registrato, al 20 luglio 2024, una riduzione delle catture del 79% rispetto allo stesso periodo del 2023. Un segnale incoraggiante, che però non deve far abbassare la guardia. Ma cosa fare per contenere questa o la prossima epidemia?
Le risposte non sono semplici. Le linee guida della Giunta provinciale del Trentino, recentemente pubblicate e prese a modello anche da altre regioni, rappresentano un importante passo avanti. Per la prima volta si afferma con chiarezza che non è necessario rimuovere tutti gli alberi morti o danneggiati. Se non ci sono rischi per la sicurezza o situazioni particolari, il legno morto lasciato in piedi o a terra può essere ecologicamente benefico: favorisce la biodiversità, dà rifugio ai predatori naturali del bostrico, protegge le nuove piantine dal sole, dalla competizione con gli arbusti e dagli erbivori, trattiene e arricchisce il suolo, e può fornire una protezione temporanea contro frane e valanghe.
Lasciare una parte degli alberi danneggiati, dunque, non è solo una scelta di praticità o di bilancio. È una scelta ecologica, coerente con un modello di gestione forestale basato sulla resilienza più che sul controllo totale. Ecco perché nell’Oasi WWF di Valtrigona si è scelto di osservare prima di agire, di studiare l’evoluzione naturale e accompagnarla solo dove necessario. In molte aree colpite, non si è tagliato nulla. Si è lasciato il bosco libero di reagire. Perché anche un albero morto, se osservato con occhi attenti, può insegnarci qualcosa: che in foresta, come nel ciclismo, non si vince per forza con la forza. Ma con la resistenza, l’equilibrio e la capacità di cambiare strategia.

Oasi WWF di Valtrigona, Walter Tomio
Tempesta Vaia: quanto carbonio abbiamo perso?
Quando Vaia colpì le Alpi italiane nell’ottobre del 2018, il timore principale fu quello di una perdita massiccia del ruolo delle foreste come serbatoio di carbonio. Eppure, i numeri raccontano una storia più articolata e meno catastrofica di quanto ci si potesse aspettare. Un gruppo di ricercatori italiani è riuscito a simulare al computer l’impatto dell’evento sul carbon sink delle foreste colpite, integrando nei loro modelli i dati sulla biomassa abbattuta, la gestione forestale e il recupero del legname attraverso l’esbosco degli alberi danneggiati.
Secondo il loro studio, Vaia ha spostato circa 3,1 milioni di tonnellate di carbonio dalla biomassa viva alla materia organica morta, aumentando temporaneamente il contributo di questa componente al bilancio del carbonio. Nel 2018, anno dell’evento, il bilancio nazionale del carbonio forestale è diminuito solo del 4% rispetto allo scenario di riferimento, grazie a questi trasferimenti interni tra pool e, soprattutto, grazie al recupero di parte del legno danneggiato. Di quel legname, una parte significativa è stata infatti destinata alla produzione di manufatti, che trattengono il carbonio per un certo periodo e riducono le emissioni prodotte in altri settori economici. Grazie a questo effetto di sostituzione di materiali clima-impattanti, nel 2022 il bilancio del carbonio complessivo potrebbe essere stato fino all’8% più alto rispetto allo scenario senza Vaia, se tutto il legname fosse stato trasformato e utilizzato in Italia.
Un dato importante emerso dallo studio è che gli effetti di Vaia si sono concentrati nel breve termine, e hanno iniziato ad attenuarsi già a partire dal 2023. Questo non significa che eventi come Vaia non contino, ma che la loro gestione, e in particolare la capacità di valorizzare il legno recuperato in modo efficiente, può fare la differenza nel contenere gli impatti climatici. L’analisi offre anche spunti per il futuro: mostra come sia possibile includere i disturbi naturali nei bilanci nazionali del carbonio attraverso modelli integrati, e sottolinea l’urgenza di farlo, visto che eventi estremi e infestazioni stanno diventando la nuova normalità.

Immagine di repertorio, il dopo VAIA, di Luigi Torreggiani
Info Autori
Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali - Produzione, Territorio, Agroenergia (DISAA)
Università degli Studi di Milano