Giro Forestale d’Italia – Settimana 2

Il report della prima settimana del Giro Forestale d’Italia qui
Dopo la fatica della prima settimana, il Giro d’Italia 2025 cambia ritmo. Dalla Toscana alle Prealpi, tra cronometro, altimetrie ondulate e salite “dolci” ma insidiose, la corsa entra in una fase di tensione sotterranea, in cui nulla sembra succedere… ma solo in apparenza. I velocisti potranno scatenarsi nelle frazioni di pianura, mentre tappe come quella di San Pellegrino in Alpe (il borgo più alto dell’Appennino) o la lunga giornata di Asiago con la scalata del Monte Grappa metteranno alla prova l’equilibrio e la capacità di gestirsi dei corridori.
In questa sequenza di mezzi profili e fondovalle tranquilli, anche il racconto forestale cambia tono. Se nella prima settimana ci siano calati in crateri e attraversato foreste primordiali, ora ci fermeremo in due luoghi inaspettati: le foreste planiziali della Maremma toscana e una riserva fluviale nella pianura padana, dove il bosco sopravvive non malgrado la pianura agricola, ma dentro di essa, tra campi, bonifiche e canali. Qui, più che altrove, si gioca la sfida della convivenza tra economia, paesaggio e biodiversità, tra necessità umane e cicli ecologici. Sono foreste che non appaiono nei documentari, ma che custodiscono risposte concrete alla crisi climatica e alla perdita di natura, se solo impariamo a guardarle con attenzione.
Tappa 10: Bosco della Cornacchiaia
Dove la foresta si ricorda chi era
Poco più a sud dell’arrivo della crono di Pisa, dove la costa toscana incontra lo Scolmatore dell’Arno, si trova un pezzo d’Italia che pochi conoscono. Si chiama Bosco della Cornacchiaia, ed è uno dei cuori segreti del Parco di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli. Un parco regionale a due passi dal mare, racchiuso tra dune fossili, campi coltivati e i rami tranquilli dell’Arno. Un luogo che, nella sua apparente normalità, nasconde un laboratorio a cielo aperto sulla storia e il futuro delle foreste mediterranee.
Qui, in poco più di 400 ettari, si incrociano leccete antiche, pinete monumentali, formazioni umide, macchia mediterranea e giovani boschi in transizione. Il tutto immerso in un mosaico complesso di habitat costieri, palustri e planiziali. All’interno del Parco, l’Oasi WWF della Cornacchiaia è una foresta che racconta la storia dei cambiamenti climatici, dei paesaggi culturali e della loro resilienza ecologica.

WWF, Bosco di Cornacchiaia, Federico Lazzeretti
Dalle querce ai pini, e ritorno
Entrando nella Tenuta di San Rossore o camminando tra i sentieri sabbiosi della Cornacchiaia, si è circondati da imponenti pinete di pino domestico (Pinus pinea). Si potrebbe pensare che sia questo il volto naturale della costa toscana. Ma si tratta di un’illusione. Quello che oggi appare come “natura”, in realtà è il risultato di secoli di pianificazione forestale e trasformazioni culturali del paesaggio.
Fino al XVI secolo, il paesaggio forestale costiero era dominato da querce sempreverdi, in particolare dal leccio (Quercus ilex), che si sviluppava in fitte formazioni resistenti alla salsedine e adattate ai suoli sabbiosi e poveri di nutrienti. La lecceta formava un continuum quasi ininterrotto lungo il litorale tirrenico, in un mosaico di macchie, boschi misti e zone umide.
Fu solo con l’ascesa dei Lorena, e poi con i Salviati, che iniziò una sistemazione attiva e industriale del paesaggio: l’introduzione sistematica del pino domestico serviva a bonificare i suoli paludosi, stabilizzare le dune, ma soprattutto a garantire la produzione di pinoli, resina e legna da ardere. Le pinete artificiali crescevano rapidamente, erano più semplici da gestire, meno suscettibili agli incendi e alle difficoltà logistiche delle fitte leccete, tradizionalmente govenate a ceduo.
Questo processo non fu solo produttivo ma anche ideologico: le pinete venivano viste come un segno di ordine, razionalità, controllo. Il paesaggio veniva “ripulito” e reso utile. Così, nei secoli XVII e XVIII, il leccio fu progressivamente rimosso da molte aree litoranee e sostituito da impianti regolari di pino domestico. Il documento catastale della Tenuta di San Rossore del 1935, ad esempio, riporta che su 5000 ettari di superficie boscata, quasi l’80% era a pino domestico.
La vulnerabilità del pino domestico sarebbe iniziata a emergere di lì a breve. L’erosione costiera, che avanza su oltre il 40% dei litorali toscane, è solo il primo dei nemici. Quando il mare erode le dune più esterne, i pini marittimi che le proteggono cedono. Poi tocca ai pini domestici dell’interno, esposti al vento salmastro che ne brucia le chiome. La salinizzazione dei suoli e della falda, il ristagno idrico per i canali mal mantenuti, e le ondate di malattie e parassiti come Tomicus destruens, responsabile del crollo della produzione di pinoli, o Heterobasidion irregulare fanno il resto. Anche la pressione turistica fa la sua parte: compattamento del suolo, incendi estivi, tempeste di vento sempre più frequenti, conflitti tra pascolo e conservazione.
Il risultato? Soprassuoli invecchiati, popolamenti densi e instabili, e una pressione crescente di specie aliene, come la robinia, che colonizzano le radure lasciate dai crolli degli alberi. Eppure sono soprattutto le latifoglie della macchia mediterranea e il leccio tornano ad affermarsi nei vuoti lasciati dai pini, specialmente nelle pinete planiziali meso-igrofile, dove la concorrenza delle latifoglie è forte e l’energia per contrastare la successione e mantenere la pineta pura sarebbe oggi impossibile da mettere in campo. Il processo è in atto da tempo: uno studio a livello regionale realizzato confrontando fotografie aeree scattate tra il 1954 e il 2010 indica una contrazione delle pinete pure di domestico (-13%) e l’aumento delle pinete di domestico miste a latifoglie (+433%). A fianco del leccio, fanno capolino frassino, acero campestre, sughera, e si assiste alla ricolonizzazione da parte di insetti saproxilici e piccoli vertebrati.

WWF, Bosco del Bottaccio, Letizia Andreini
Le pinete dunali reggono meglio – più resistenti, più rade, con una certa capacità di rigenerarsi spontaneamente. Ma ovunque si guarda, il messaggio è chiaro: quel paesaggio ordinato e produttivo che era la pineta litoranea sta lasciando il posto a un mosaico nuovo, più dinamico, più complesso.
Oggi, il Parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli e la Cornacchiaia in particolare rappresentano una zona di transizione ecologica e gestionale: qui si affiancano due modelli forestali che stanno ridefinendo il paesaggio e le sue funzioni: quello produttivo-culturale della pineta coetanea, dove nel frattempo l’interesse turistico ha sostituito l’originaria economia della raccolta dei pinoli, e quello più biodiverso e resiliente della lecceta. È da questo confronto che nasce il bosco del futuro. La sfida non è conservare immobile il paesaggio di un tempo. Ma capire dove accompagnare il cambiamento, dove lasciar fare alla natura e dove invece intervenire per ripristinare un paesaggio culturale di importanza nazionale.
La torre
Nel cuore della Tenuta di San Rossore si erge all’improvviso, tra i pini marittimi centenari, una torre in ferro alta 24 metri. Non serve per avvistare incendi o sorvegliare il territorio. Serve per ascoltare. Ogni giorno, da oltre vent’anni, questa torre misura il respiro del bosco: quanta anidride carbonica entra ed esce, quanta acqua evapora, quanta luce viene assorbita dalla chioma.
È una delle stazioni ICOS (Integrated Carbon Observation System), la rete europea che monitora in modo continuo e standardizzato gli scambi di gas serra, acqua ed energia tra ecosistemi e atmosfera. A San Rossore, la stazione è gestita dal Joint Research Centre della Commissione Europea, e i suoi dati sono pubblici, accessibili da chiunque. Un osservatorio vivo, immerso in una foresta vera, che ha molto da insegnare.
Nel 2022, ad esempio, il bosco ha mostrato segni di sofferenza: è stato un anno caldo e secco, con precipitazioni inferiori del 27% rispetto alla media storica e una temperatura media aumentata di oltre un grado e mezzo. Risultato? Il bosco ha assorbito molta meno CO₂ rispetto agli anni precedenti, e la fotosintesi ha rallentato già in primavera. Non era mai successo in modo così evidente. Eppure, nonostante tutto, gli indici di area fogliare (LAI) mostrano che la foresta continua a crescere, sia pure lentamente: un segnale di resilienza che ha sorpreso gli scienziati.
La torre non serve solo a monitorare il cambiamento climatico. Serve anche a convalidare le osservazioni da satellite del programma Copernicus, a tarare modelli di trasferimento radiativo e a misurare con rigore i modelli computerizzati che simulano il potenziale di assorbimento di carbonio delle foreste, dati oggi fondamentali per costruire un sistema credibile di certificazione dei crediti di carbonio europei. San Rossore è, insomma, un laboratorio a cielo aperto. Un luogo dove la scienza diventa alleata della politica e della pianificazione forestale. E dove ogni dato raccolto è un passo in più per capire come far convivere produzione, conservazione e clima in un mondo che cambia.
La pazienza del pino
Per secoli, la rinnovazione naturale delle pinete costiere di pino domestico è stata una sfida apparentemente impossibile. Pianta nobile ma esigente, il pino ha bisogno di suoli sabbiosi, con poca competizione, e soprattutto di molta luce. Il sistema tradizionale di gestione prevedeva tagli rasi e piantagioni artificiali, ogni 90-120 anni. Ma oggi, nell’era del cambiamento climatico e delle aree protette, serve un’altra via. Nel Parco di San Rossore, un gruppo di ricercatori la ha trovata osservando pazientemente tre particelle di pineta costiera nel Parco di San Rossore, cresciuta su dune sabbiose e sottoposta per anni solo a disturbi naturali. Niente tagli, nessun intervento, per comprendere n quali condizioni, senza l’influenza umana, i pini sanno rinnovarsi da soli.
In alcune radure, aperte dal vento o dai fulmini, le pigne cadute a terra avevano liberato semi. E tra le radici degli adulti, al riparo dal sole diretto, erano spuntati centinaia di nuovi germogli. La rinnovazione era più abbondante proprio sotto la chioma dei vecchi pini: un paradosso apparente, spiegato dal fatto che i semi del pino domestico sono pesanti e non si spostano lontano. Cadono vicini, e crescono lì dove si trovano ombra parziale e protezione dal caldo e dalla siccità. Grazie a rilievi ad alta precisione (con GPS e stazioni totali), gli studiosi hanno potuto mappare pianta per pianta la posizione, le dimensioni, la struttura del bosco. Hanno osservato che dove c’è troppa luce, i giovani pini muoiono, e dove ce n’è troppa poca, non nascono. Ma nelle condizioni “giuste” – mezz’ombra, disturbi lievi, spazio tra i rami – il bosco si autorigenera.
Ma se il pino domestico può rinnovare da solo, perché allora ci sono ancora tante pinete vuote, con radure che restano spoglie anche dopo anni? La risposta, suggeriscono I risultati dello studio, sta nella forma di gestione. Quando si ricorre a tagli intensi e uniformi, come nel classico sistema a fustaia coetanea con grandi rasi o tagli di sementazione su ampie superfici, i semi liberati dalle piante risparmiate dal taglio non arrivano dove servirebbero. Così intere superfici restano prive di rinnovazione, e il ciclo del bosco si interrompe. Invece, per favorire il successo riproduttivo del pino domestico, i tagli di sementazione dovrebbero essere più graduali, con densità residue attorno ai 125-150 alberi per ettaro dopo il primo intervento, per facilitare una dispersione del seme più diffusa da parte delle piante soopravvissute e creare condizioni di luce e suolo più favorevoli alla germinazione.
Nelle aree dove la rinnovazione è già abbondante si può osare di più: passare a modelli di gestione disetanei, con tagli seletivi a gruppi, che mantengano una copertura continua e una struttura eterogenea. È il principio della selvicoltura a copertura continua, adattato a un albero che abbiamo sempre pensato amante della luce piena, ma che forse chiede un po’ più di pazienza e attenzione. In definitiva, il pino domestico forse non è destinato a scomparire, né ha bisogno di essere sempre rimpiazzato. Ha solo bisogno che cambiamo il modo in cui lo accompagniamo. E San Rossore, ancora una volta, ci mostra come.
Bosco del Bottaccio – La memoria dell’acqua

WWF, Bosco del Bottaccio, Letizia Andreini
Se esiste un luogo in Toscana dove la memoria dell’acqua si fa foresta, è l’Oasi WWF del Bosco del Bottaccio, nel comune di Capannori, tra Lucca e Pisa, nella bassa pianura tra il Monte Pisano e i rilievi dell’entroterra lucchese. Un’area piccola, appena 25 ettari, ma preziosa: riconosciuta come Zona Speciale di Conservazione (IT5120101) e inserita tra le zone umide d’importanza internazionale (Convenzione di Ramsar), il Bottaccio conserva uno degli ultimi lembi del bosco planiziale che un tempo circondava il Lago di Bientina, il più grande bacino lacustre della Toscana prima di essere bonificato nell’Ottocento.
Oggi, al posto dell’acqua aperta, restano stagni, canneti, prati umidi e boschi meso-igrofili, alimentati dalle acque limpide che scendono dal Monte Pisano. Farnia, ontano nero, olmo campestre e acero si alternano a salici e sambuchi. L’avifauna migratoria trova rifugio tra le fronde e nelle chiarie: aironi cenerini, garzette, folaghe, cicogne. Tra gli alberi si muovono volpi, tassi, istrici e mustelidi. Ma il vero protagonista è l’equilibrio sottile tra terra e acqua, che rende questo luogo un laboratorio vivente di biodiversità e resilienza.
Macchine del tempo forestali
Camminando nell’Oasi WWF del Bosco del Bottaccio ci si immerge in un paesaggio fatto di querce, ontani, canneti e stagni. Ma la scena naturale che ci circonda ha una storia molto più lunga e sorprendente di quanto sembri. Grazie a carotaggi e studi pollinici condotti nei sedimenti dell’ex Lago di Bientina, è possibile risalire all’evoluzione della vegetazione di quest’area fin dai tempi dell’Olocene. In questo senso, il Bottaccio non è solo un frammento di foresta risparmiata dalla distruzione: è una finestra aperta su diecimila anni di convivenza tra bosco e umanità.
Circa 11 000 anni fa,l’area era dominata da ampie superfici umide con abbondanza di specie palustri come canne, tife e carici. Le analisi del polline e dei macroresti vegetali evidenziano come le oscillazioni climatiche abbiano giocato un ruolo fondamentale nel determinare l’andamento della vegetazione: ad esempio, durante periodi più umidi prevalevano le specie igrofile, mentre in momenti più asciutti comparivano elementi delle praterie o del bosco aperto.
Intorno al Neolitico e all’Età del Bronzo, un nuovo attore entra in scena: Homo sapiens. I dati archeobotanici documentano tracce di agricoltura e deforestazione, con un netto calo della copertura arborea e l’incremento di piante legate ai suoli disturbati o coltivati. Si trattava di un paesaggio semiaperto, in cui alle frange di bosco meso-igrofilo simile a quello relitto odierno (farnia, ontano, frassino, olmo) si affiancavano coltivi e radure.
Ma ciò che sorprende di più è un altro fenomeno interessante: la vegetazione sempreverde mediterranea – come leccete e macchia – non si è diffusa spontaneamente in queste zone umide della Toscana nel corso dell’Olocene, ma piuttosto in risposta alle trasformazioni umane. Quando i boschi decidui naturali (come le foreste di farnia, olmo, ontano) venivano tagliati o convertiti in campi e pascoli, si aprivano spazi che venivano colonizzati da piante sempreverdi più resistenti e meno esigenti in termini di suolo e acqua. Il dato sorprendente è che quando l’uomo smette di gestire il paesaggio, ad esempio abbandonando coltivi o smettendo di drenare i terreni, la natura tende a riportare le condizioni originali di palude. In questo senso, il paesaggio umido e boscoso del Bottaccio è più naturale di quanto sembri, mentre la macchia mediterranea potrebbe essere, almeno in parte, un “effetto collaterale” della pressione umana nei millenni passati.
Conoscere la storia della vegetazione attraverso gli strumenti della paleoecologia quindi non è solo una curiosità accademica, ma uno strumento concreto per “leggere” meglio il paesaggio che ci circonda, assistendo al suo svilupparsi e ai suoi cambiamenti nel tempo, compresi quelli più controintuitivi, per poter guidare il ripristino ecologico e la pianificazione del futuro.

WWF, Bosco del Bottaccio, Domenico Verducci
Tappa 12: Le Bine – Quando il bosco torna a respirare
Nel cuore della bassa pianura lombarda, tra i comuni di Calvatone (CR) e Acquanegra sul Chiese (MN), lungo una delle anse più antiche del fiume Oglio, si estende la Riserva Naturale Regionale Le Bine. Un’area piccola — appena 20 ettari di zona umida vera e propria, più circa 80 di area di rispetto — ma dal valore ecologico enorme. Qui, dove il fiume è stato interrotto e deviato alla fine del Settecento per bonificare una palude “malsana”, la natura ha saputo riprendersi il suo spazio. Il meandro abbandonato, oggi chiamato “Oglio morto”, è diventato un raro esempio di lanca viva, in lenta evoluzione verso la palude, e oggi sito ZSC IT20A0004 “Le Bine” e parte della ZPS “Parco regionale Oglio Sud”.
All’interno dell’Oasi WWF vivono oltre 300 specie vegetali, una colonia di circa 100 aironi cenerini, ai quali recentemente si sono aggiunte le garzette e la nitticora, il falco pecchiaiolo, il capriolo, lo scoiattolo rosso e una consistente popolazione di rana di Lataste, anfibio endemico e simbolo dell’Oasi. La principale comunità forestale è quella degli ontaneti planiziali (Habitat 91E0*), una vegetazione relitta e preziosa che dipende da piccolissime variazioni del livello della falda: basta un abbassamento di 20-30 cm per compromettere la sopravvivenza delle specie igrofile come l’ontano nero e spingere il bosco verso la dominanza di specie amanti di condizioni meno umide, come il frassino e l’olmo. Eppure, questi boschi sono tra i più produttivi d’Europa: un ettaro di ontaneto può fornire servizi ecosistemici — assorbimento di carbonio, filtraggio delle acque, habitat per anfibi — molto superiori a un pioppeto tradizionale, se ben gestito.
Un mosaico fragile
Ma il contesto non è idilliaco: l’area è piccola, circondata da un contesto agricolo intensivo e urbanizzato, e le dinamiche ecologiche naturali sono fortemente limitate. La riserva soffre per l’interramento progressivo della lanca, l’alternanza sempre più repentina di periodi di piena e siccità, la colonizzazione da parte di specie vegetali invasive (come ailanto, robinia, acero americano) e la semplificazione della vegetazione acquatica. Anche l’interruzione delle connessioni ecologiche con il fiume e i boschi circostanti rappresentano un limite alla biodiversità.
Per affrontare queste sfide, il Piano di gestione della Riserva e le Misure di Conservazione del Sito Natura 2000 hanno programmato azioni specifiche:
- creazione di boschi permanenti su aree agricole dismesse, con specie autoctone;
- chiuse, pompe solari e stagni per regolare il livello idrico e favorire gli ontaneti;
- sfangatura periodica dei sedimenti per ridurre il carico di nutrienti e recuperare profondità;
- interventi mirati per contenere ailanto e robinia e favorire ontano nero e salice bianco;
- impiego di fasce boscate tampone tra habitat acquatici e aree agricole.
Ma la strategia più efficace sarebbe quella che lavora sui tempi lunghi e sull’infrastruttura ecologica diffusa: connettere Le Bine con il fiume Oglio e gli altri Parchi Regionali, favorendo un approccio di rete alla conservazione padana.
Produzione e biodiversità
Attorno alla riserva vera e propria si estendevano campi coltivati a pioppo a rapido accrescimento. Ma dagli anni Duemila, grazie alla collaborazione tra WWF, enti locali e ricercatori, si è iniziata una trasformazione radicale: al posto delle monoculture a ciclo breve, sono nati impianti forestali misti a ciclo lungo, con specie autoctone come farnia, frassino, acero campestre e pioppo bianco. Un cambiamento guidato da un lavoro collettivo, con il supporto dell’Istituto Sperimentale per la Selvicoltura di Arezzo (oggi CREA Foreste e Legno) e del Parco Oglio Sud, che ha portato a quasi 56 ettari di nuovi impianti misti destinati a tagli selettivi a basso impatto, una tecnica che rimuove solo gli alberi maturi, lasciando la copertura continua del bosco. Così si conserva il microclima del sottobosco, si garantisce la rinnovazione e si mantengono habitat per insetti, uccelli e piccoli mammiferi, pur producendo legno e reddito per I proprietari del bosco.
I risultati si vedono: più lepidotteri, più coleotteri carabidi, più uccelli nidificanti, e nuovi insediamenti di mammiferi. Anche la qualità biologica del suolo è aumentata, grazie a tecniche di gestione più attente e riduzione dei fitofarmaci. Una prova che anche in pianura la selvicoltura può essere alleata della biodiversità, se pensata bene.
Il suolo parla
Per far crescere una foresta, non basta piantare alberi: bisogna capire cosa c’è sotto. E qui entra in gioco uno degli studi scientifici più interessanti condotti a Le Bine: quello sulle relazioni tra proprietà del suolo e accrescimento degli alberi, coordinato da un team dell’Università Bicocca di Milano.
I ricercatori hanno mappato oltre 2.500 alberi su una ex golena, misurandone la crescita e confrontandola con le caratteristiche del suolo. I risultati? Alcuni fattori spesso trascurati, come la presenza di carbonati totali o il contenuto di argilla, risultano limitanti per lo sviluppo delle piante. Al contrario, la disponibilità di azoto, potassio e materia organica si conferma decisiva per la crescita, soprattutto in specie come farnia e noce.
La ricerca ha fornito mappe geostatistiche della fertilità del suolo e linee guida per pianificare rimboschimenti più resilienti. Ma la scoperta più utile è operativa: in base alla profondità della falda freatica si possono selezionare specie più adatte al sito, migliorando la resilienza e riducendo la mortalità. Questi dati permettono di pianificare impianti forestali più efficienti, anche in aree marginali o degradate, senza spreco di risorse. In una pianura in cui il bosco è spesso residuale, sapere dove e cosa piantare può fare la differenza tra un progetto fallito e una foresta che vive.
Con le tappe di Cornacchiaia, Bottaccio e Le Bine, la seconda settimana del Giro Forestale d’Italia ci ha portati nelle terre basse, là dove il bosco filtra, si piega, si adatta. Foreste che convivono con l’acqua, con l’agricoltura, con la storia lunga della pianura e dei suoi abitanti. Abbiamo visto che anche qui, tra dune fossili, ex laghi bonificati e meandri perduti, la biodiversità non è un accidente ma una scelta possibile, se supportata da conoscenza scientifica, pianificazione e coraggio.
Ora però la corsa cambia di nuovo pendenza.
La terza settimana sarà quella decisiva. I corridori affronteranno i tapponi alpini, il ritorno in quota, le fughe da lontano. Il bosco seguirà lo stesso ritmo. Saliremo tra abeti e larici colpiti dal vento, come nell’Oasi di Valtrigona. Scenderemo a valle per raccontare un esempio di ripristino forestale visionario, quello del Bosco di Vanzago, e infine ci fermeremo a un passo dal mare (e dalla passerella finale del Giro d’Italia), nella Riserva di Macchiagrande, per riflettere su come anche le foreste costiere possano essere chiavi di adattamento climatico e rifugi di biodiversità. Parleremo di equilibri nuovi, di transizioni lente ma inevitabili, e della capacità di gestire i boschi facendo spazio alla biodiversità, anche dove sembrava scomparsa.

WWF, Bosco di Vanzago
Alla prossima settimana con un po’ meno ossigeno, ma con ancora più storie da respirare.
Info Autori
Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali - Produzione, Territorio, Agroenergia (DISAA)
Università degli Studi di Milano